L'esperienza amorosa viene raramente considerata per quello che una mente sobria e sgombra di illusioni potrebbe pensare, vale a dire un incontro tra due esseri umani che trovano l'un l'altro vicendevolmente diletto nel trascorre assieme un po' di tempo, al massimo per tutto il limitato arco temporale concesso alla vita umana.
Non di rado si arriva invece all'esagerazione di pensare alla persona amata come una soglia verso una realtà nuova, come una terra promessa, come un giardino terrestre. Solo dopo un po' di tempo ci si accorge che tutta la magia nasce nello sguardo dell'innamorato e che, dunque, il mondo continua a esistere con tutte le sue enormi imperfezioni, con le sue insensate bizzarrie e i suoi indicibili dolori. La casa progettata come se dovesse essere una appendice del paradiso terrestre – progetto che magari per un po' di tempo è parso andare beatamente in porto – altro più non ispira se non la noia del conosciuto, il fastidio dell'imperfezione, lo sgomento di una promessa mancata. Si provi pure a ripetere la crociera con i suoi tramonti, le serate danzanti e le brevi ma intense notti nella raccolta alcova di una cabina Delux suite.
La ragione per cui non vi è paradiso terrestre da cui non si venga scacciati non la scopriamo grazie a chissà quale sapienza, è sufficiente l'esperienza quotidiana e l'ovvia saggezza popolare che ispira: l'ingrediente migliore di ogni vivanda è la fame, così come una grande stanchezza fa del letto consueto il giaciglio di un re e pure la luce e il tepore del sole a primavera dopo i rigori dell'inverno ci appaiono una benedizione divina. Questo ha però come ineludibile conseguenza il fatto che niente della felice realtà rimane quello che è se il vedere, il sentire e il vivere non avvengo sullo sfondo di una privazione. Una volta appagata la sete di felicità, scompare anche il piacere di soddisfarla e nulla rimane di ciò che ci ha dato il paradiso. La felicità di un tempo precipita nelle noia e nella malinconia: tutto sarebbe ancora con noi, solo noi non ci siamo più come eravamo. Soprattutto non c'è più ciò che ci ha reso disponibili a trasfigurare il nostro mondo dolente nella meraviglia del giardino terrestre: il vuoto di una assenza e il dolore di una gioia mancata.
Questo accade quando si commette l'umanissimo errore di fantasticare il destino degli dei immaginandolo solo in ciò che sono e in ciò che hanno senza considerare ciò di cui non possono godere. Tutte le loro infinite possibilità si riducono infatti alla ben poco attraente esperienza della noia e della malinconia: di tutto il loro potere non rimane che la prevedibilità, l'abitudinarietà, la certezza degli esiti. A loro è infatti preclusa ogni possibilità di conoscere il piacere che offre il passaggio da una privazione alla realizzazione, dal senso del vuoto al senso della compiutezza. Per questa ragione la stessa debolezza umana che fa fallire o dissolvere in una breve durata i sogni, è anche la prerogativa di chi può fare l'esperienza di cosa sia la felicità.
Se è vero che nell'esperienza amorosa il Creatore ha voluto farci intravedere un bagliore della felicità celeste, per preservarla non dovremmo accoglierla come già una sorta di paradiso in terra, ma viverla nella sua umana labilità e pensarla dunque inscindibilmente connessa la suo contrario.

